Quiet Quitting: quando "fare il minimo indispensabile" diventa la normalità

Di recente si è tenuto il corso teorico-pratico per il personale di sala operatoria sulla chirurgia vertebrale presso l'Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna il 16 e 17 maggio 2025, durante il quale ho avuto modo di riflettere su come certi fenomeni globali possano influenzare anche contesti altamente specializzati. In tale occasione, pur essendo incentrata sulle tecniche chirurgiche, è emersa in modo tangenziale la discussione su come il benessere e l'engagement del personale siano cruciali per la performance complessiva.

Negli ultimi tempi, un termine ha iniziato a circolare con insistenza nel mondo del lavoro: quiet quitting, o "licenziamento silenzioso".

Non si tratta di una vera e propria dimissione, ma di un fenomeno più subdolo e diffuso, in cui i dipendenti riducono volontariamente il proprio impegno lavorativo al minimo indispensabile, svolgendo unicamente i compiti strettamente previsti dal contratto e rinunciando a qualsiasi forma di iniziativa o coinvolgimento extra.

Questo fenomeno, amplificato dai social media e dalle discussioni online, solleva interrogativi importanti sul futuro del lavoro, sul benessere dei dipendenti e sulla produttività delle aziende. Ma quali sono le cause di questo "disinvestimento silenzioso"? E quali implicazioni comporta per lavoratori e datori di lavoro?

Le radici del disimpegno

Le ragioni che spingono un lavoratore ad adottare il quiet quitting sono molteplici e spesso interconnesse. Tra le più comuni troviamo l'insoddisfazione lavorativa, che può derivare da stipendi inadeguati, mancanza di riconoscimento, opportunità di crescita limitate o un ambiente di lavoro tossico, erodendo così motivazione ed entusiasmo.

Un altro fattore determinante è il burnout e lo stress: un carico di lavoro eccessivo, scadenze irrealistiche e una pressione costante possono condurre all'esaurimento fisico e mentale, spingendo i dipendenti a proteggere le proprie energie.

Si aggiunge poi la mancanza di equilibrio tra vita privata e lavoro, dove la difficoltà nel separare la sfera professionale da quella personale, anche a causa della diffusione dello smart working, può generare risentimento e il desiderio di stabilire confini più netti. La percezione di scarso valore contribuisce anch'essa al disimpegno: quando i dipendenti sentono che il loro contributo non è apprezzato o che i loro sforzi extra non vengono riconosciuti, tendono naturalmente a ridurre il proprio impegno. Infine, una reazione alla "hustle culture", ovvero la pressione a essere costantemente produttivi e disponibili, promossa dalla cosiddetta "cultura dell'eccesso di lavoro", può generare un rifiuto e il desiderio di un approccio più equilibrato al lavoro.

Le implicazioni per lavoratori e aziende

Il quiet quitting non è una soluzione sostenibile a lungo termine né per i lavoratori né per le aziende.

Per i lavoratori, un disimpegno prolungato può portare a: stagnazione professionale, poiché la mancanza di iniziativa e di volontà di andare oltre il minimo indispensabile può limitare le opportunità di crescita e avanzamento di carriera; frustrazione e insoddisfazione personale, dato che sentirsi demotivati e non realizzati nel proprio lavoro può avere un impatto negativo sul benessere psicologico generale; e un rischio di isolamento, poiché la tendenza a chiudersi e a limitare le interazioni con i colleghi può portare a un senso di solitudine e alienazione.

Per le aziende, le conseguenze del quiet quitting possono essere significative: un calo della produttività, in quanto una forza lavoro disimpegnata è meno motivata a dare il meglio di sé, con un impatto diretto sulla qualità del lavoro e sull'efficienza complessiva; una diminuzione dell'innovazione, dato che i dipendenti che fanno il minimo indispensabile difficilmente saranno proattivi nel proporre nuove idee o soluzioni creative; un clima aziendale negativo, poiché il disimpegno di alcuni può influenzare negativamente il morale degli altri, creando un ambiente di lavoro demotivante; e un aumento del turnover, in quanto il quiet quitting può essere un preludio a vere e proprie dimissioni, con conseguenti costi di reclutamento e formazione di nuovo personale.

Affrontare il quiet quitting: un impegno comune

Contrastare il fenomeno del quiet quitting richiede un approccio proattivo sia da parte dei lavoratori che delle aziende.

I lavoratori possono affrontare la propria insoddisfazione comunicando apertamente le proprie preoccupazioni e i propri bisogni ai superiori, il che può essere il primo passo per trovare soluzioni e migliorare la situazione lavorativa. È inoltre fondamentale stabilire confini chiari tra vita privata e lavoro per prevenire il burnout e preservare il proprio benessere. Qualora la situazione lavorativa non migliori, valutare un cambio di impiego può rivelarsi la scelta più sana e costruttiva.

Le aziende possono prevenire e affrontare il quiet quitting attraverso l'ascolto attivo dei dipendenti, creando canali di comunicazione efficaci per raccogliere feedback e comprendere le esigenze e le preoccupazioni dei lavoratori. È cruciale la promozione di un ambiente di lavoro positivo, favorendo una cultura aziendale basata sul rispetto, sulla collaborazione, sul riconoscimento e sulle opportunità di crescita. È inoltre importante offrire retribuzioni e benefit competitivi per assicurarsi che i dipendenti si sentano adeguatamente compensati per il loro lavoro. Le aziende dovrebbero poi investire nel benessere dei dipendenti, implementando programmi di supporto per la salute fisica e mentale, promuovendo l'equilibrio tra vita privata e lavoro e offrendo flessibilità. Infine, è essenziale riconoscere e valorizzare il contributo individuale, facendo sentire i dipendenti apprezzati e importanti per il successo dell'azienda.

La scala di valutazione dell'abbandono silenzioso (Quiet Quitting Scale - ITA)

Per misurare e comprendere meglio il fenomeno del quiet quitting, sono stati sviluppati strumenti di valutazione come la "Quiet Quitting Scale - ITA". Questa scala permette di quantificare il livello di disimpegno di un individuo attraverso domande specifiche, utilizzando una scala di risposta che va da "Fortemente in disaccordo" a "Fortemente d'accordo" o da "Mai" a "Sempre".

La scala include domande che esplorano diversi aspetti del quiet quitting, tra cui:
  • La tendenza a svolgere il basilare o il minimo lavoro indispensabile, senza andare oltre.
  • La propensione a delegare il proprio lavoro ai colleghi quando possibile.
  • La frequenza con cui vengono prese tutte le pause disponibili.
  • Quanto spesso si finge di lavorare per evitare altre attività.
  • La riluttanza a esprimere opinioni o idee per timore di ricevere più attività o perché si ritiene che le condizioni di lavoro non cambieranno.
  • La frequenza con cui si prende l'iniziativa al lavoro.
  • Il livello di motivazione e ispirazione percepito nel proprio lavoro.

Questi strumenti sono fondamentali per le aziende e i responsabili delle risorse umane per identificare precocemente i segnali di quiet quitting e intervenire con strategie mirate al miglioramento del benessere e dell'engagement dei dipendenti.

In conclusione, il quiet quitting è un sintomo di un disagio nel mondo del lavoro e affrontarlo richiede un impegno congiunto da parte di lavoratori e aziende per creare ambienti di lavoro più sani, motivanti e sostenibili nel lungo termine.

Solo così si potrà trasformare questo "licenziamento silenzioso" in un'opportunità per ripensare il rapporto tra individuo e lavoro, migliorando il benessere di tutti.

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